Microbi e Biomining, i minatori più piccoli del mondo

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Microbi e Biomining, i minatori più piccoli del mondo

Biomining - Flickr 51425814442-(CC BY-NC 2.0)

a cura di Piero Chiabra, diGenova OdV

È noto come la nostra società consumi una grande quantità di risorse naturali. E come, di queste risorse, molte non siano rinnovabili. Di queste ultime, sicuramente, le principali sono i combustibili fossili, di cui faremmo bene a ridurre grandemente e/o eliminare l’utilizzo, se la nostra civiltà vuole sopravvivere.

Ma, subito dopo, vengono i metalli: ferro, rame, alluminio, platino, piombo, oro, argento. E altri, che stanno acquisendo sempre maggiore importanza: titanio, tungsteno, litio, terre rare (sì, sono metalli). E questi, a differenza dei combustibili fossili, a parte un parziale loro rimpiazzo con le materie plastiche per un certo numero di applicazioni, non abbiamo alcun mezzo per sostituirli. Anzi, la crescita della domanda di litio e terre rare renderà l’approvvigionamento di metalli uno dei temi più critici e delicati della politica e dell’economia del futuro.

Ma i metalli devono essere estratti dalla terra, tramite delle miniere. E i metodi tradizionali di estrazione sono devastanti. Tutti noi conosciamo le enormi distruzioni ambientali causati dalle miniere a cielo aperto. Meno noto, ma altrettanto se non ancor più distruttivo, è l’inquinamento causato dai residui di lavorazione del processo di estrazione dei minerali, un flagello che, soprattutto attorno ai grandi impianti estrattivi, e/o in zone ricche di miniere, ha causato l’inquinamento da metalli pesanti di intere regioni del pianeta.   E anche qui, come in altri settori, la situazione è stata causata, e si perpetua, a causa di un’allegra e noncurante mancanza di innovazione tecnologica. E perché innovare poi? I governi non hanno mai ritenuto di regolamentare il settore minerario in maniera stringente sulle tematiche ambientali, i ritorni economici sono corposi anche utilizzando tecnologie di estrazione  “mature”, per non dire a volte preistoriche; le uniche innovazioni effettuate nel settore si sono concentrate, prima di tutto, ad evitare che i minatori morissero (sia velocemente in incidenti minerari, tramite un miglioramento dei protocolli  e delle dotazioni di sicurezza, sia lentamente per le polveri e i materiali inalati durante il lavoro, tramite il miglioramento delle condizioni sul campo), e, poi, per aumentare le rese di materiale. La riduzione dell’impatto ambientale è sempre apparsa in fondo alla lista: l’innovazione costa, si sa.

Ma, negli ultimi tempi, le cose stanno cambiando, e non solo per ragioni ambientali.

A fronte della domanda crescente di metalli, che, purtroppo, il riciclaggio riesce attualmente a compensare solo in maniera marginale, le rese delle miniere tradizionali stanno diminuendo in tutto i l mondo. I filoni più ricchi si stanno esaurendo, ed è sempre più difficile trovarne di nuovi. Le società minerarie sono così costrette a orientarsi verso lo sfruttamento di filoni a resa inferiore, in cui il metallo è presente in quantità minore rispetto al materiale di risulta, e questo costringe ad aumenti dei costi di estrazione che comprometterebbero i risultati economici, sin qui favolosi, delle società minerarie.

Ed ecco, quindi, che appare necessario studiare meccanismi di estrazione innovativi. E, già che si affronta la questione, tanto meglio se questi diminuiscono l’impatto ambientale dei processi minerari, soddisfacendo anche le istanze di questi “fastidiosi“ambientalisti (l’immagine conta, si sa…).

Ed ecco che è venuta l’idea.

Microbi.

Esistono in natura numerose varietà di microbi procarioti (i più primitivi, nati anche miliardi di anni fa, quando la terra aveva un aspetto ben diverso da quello attuale) i quali assorbono metalli dall’esterno, metalli che poi usano per i loro processi metabolici. Alcuni di questi sono in grado di moltiplicarsi molto velocemente in un ambiente favorevole, sottraendo all’ambiente quantità di metallo anche rilevanti.

E allora, perché non utilizzarli per estrarre materiale, in particolare per estrarre il metallo dal materiale di risulta, il processo più inquinante e costoso?

L’idea, in realtà, non è nuova: già nel 1951, due biologi americani, Kenneth Temple e Arthur Russell, avevano dimostrato la possibile estrazione di metalli pesanti (ferro, rame e magnesio) tramite l’uso del batterio Acidithiobacillus ferrooxidans.

Il processo, in realtà, è molto semplice: il materiale estratto viene versato in un silo, e viene “innaffiato” da una soluzione contenente il batterio, la quale viene fatta percolare attraverso il materiale, fino ad essere raccolta in basso in una vasca di decantazione, dove il metallo viene recuperato, e la soluzione rimandata in circolo.

Il processo è ambientalmente neutro e non richiede quasi energia, però è molto lento (da allora, si è riusciti ad accelerarlo in qualche modo migliorando le condizioni di riproduzione dei batteri, ma è sempre più lento dei processi tradizionali), e soprattutto, allora non sussistevano le condizioni per il suo utilizzo industriale in modo economicamente conveniente, per cui la materia venne lasciata cadere. Una ventina di anni fa, però, il processo di estrazione batterica, denominato “Biomining”, ha attirato l’attenzione delle aziende minerarie coinvolte nell’estrazione di metalli pregiati e/o rari, nelle quali l’esaurimento delle vene altamente produttive era un problema moto sentito. Ciò era particolarmente importante per il rame, date le elevate richieste di utilizzo, e per l’oro, dato l’elevato valore intrinseco. Sulla spinta del profitto (per i miglioramenti ambientali, l’intendance suivra…), sono stati sviluppati processi di biomining che hanno avuto un rilevante successo. Oggi, si può calcolare che il 10-15% del rame e il 5% dell’oro estratto in tutto il pianeta siano ricavati tramite tecniche di biomining, con un significativo miglioramento dell’impatto ambientale, e un rilevante risparmio energetico (l’industria mineraria consuma il 5% dell’energia mondiale, il biomining quasi nulla…). E, sulla scia di questo successo, si sta sperimentando il biomining anche per l’estrazione di altri materiali quali il ferro, il nichel e il cromo.

Ma il biomining può andare oltre: può, ad esempio, cambiare la natura dell’approvvigionamento di metalli incrementando verticalmente l’efficienza dei sistemi di riciclaggio.  Oggi, ad esempio, è diffusa la coscienza di dover riciclare le apparecchiature elettroniche, ma la dura realtà è che la maggior parte di queste non vedono i loro materiali riutilizzati, per il semplice fatto che un loro recupero è estremamente difficile, ed è difficile per la stessa regione che tormenta le aziende estrattive: la percentuale di materiale “pregiato” recuperabile è troppo bassa, e difficile da separare. Ora, un’azienda tedesca, la BRAIN (Biotechnology Research and Information Network), ha sviluppato una serie di processi di biomining con cui estrarre l’oro, l’argento e le terre rare presenti nelle apparecchiature elettroniche riciclate, consentendo enormi recuperi. Si stima infatti che, attualmente, circa 10 miliardi di dollari ogni anno siano perduti in metalli pregiati che non si riescono a recuperare dalle apparecchiature elettroniche. Questa è una quantità che, soprattutto per le terre rare e l’oro, potrebbe portare addirittura a una modifica strutturale del mercato, portando ad una diminuzione delle attività estrattive a favore di un riciclaggio sostanziale delle quantità estratte. Addirittura, per alcuni materiali come le terre rare, il biomining potrebbe avere un impatto strategico e geopolitico: se ne è reso conto il Pentagono che, tramite la DARPA, la sua agenzia di ricerca, ha varato un programma di sviluppo delle tecnologie di biomining per ben 17 elementi, suscettibili di avere una valenza strategica, al fine di compensare e/o eliminare la prevalenza cinese nell’estrazione di diversi di questi.

Da ultimo, c’è da dire che il biomining potrebbe arrivare molto lontano, laggiù dove nessun uomo è andato sinora: sono in corso sperimentazioni per utilizzare il biomining per estrarre minerali dalla fascia degli asteroidi e riportarli sulla Terra. Un esperimento ideato dall’Università di Edimburgo, e finanziato da Elon Musk (sempre lui!), si è svolto sulla Stazione Spaziale Internazionale, e ha dimostrato la fattibilità dell’estrazione tramite biomining di terre rare in ambienti di microgravità e di gravità marziana. Ulteriori studi sono in corso, e si preannunciano investimenti da parte di aziende coinvolte nella Space economy: oltre che per lo sfruttamento degli asteroidi il tema potrebbe essere strategico per i programmi di installazione di basi permanenti su altri corpi celesti.

Un tempo, nell’era preindustriale, in un mondo che, nonostante tutte le lodi del “buon tempo antico”, e tutto quello che vediamo oggi, era molto più crudele di questo, nei lavori in miniera erano usati abbondantemente i bambini. Questo perché avevano ovvi vantaggi: respiravano meno aria, e si potevano infilare in anfratti più stretti. Oggi, si potrebbe dire, abbiamo trovato un modo, molto più umano, per sfruttare gli stessi vantaggi: abbiamo trovato i minatori più piccoli del mondo, che non hanno bisogno di respirare, vivono benissimo a contatto con il minerale, si infilano negli interstizi più microscopici per estrarre il materiale, e non vogliono neanche essere pagati.
Converrà usarli il più possibile: i metalli, loro li mangiano. E non accampano neanche altre pretese…

APPROFONDIMENTI

Biomining: estrarre metalli con i microrganismi, anche nello spazio

https://www.labiotech.eu/in-depth/biomining-sustainable-microbes/

https://cen.acs.org/articles/90/i42/Mining-Microbes.html