Di Massimo Sideri, inviato ed editorialista del “Corriere” sui temi di scienza, innovazione e tecnologia (vedi riferimenti a fondo pagina)
Moriva 70 anni fa in una maniera al tempo stesso orribile e fiabesca – cioè mordendo una mela avvelenata autoprodotta – la persona che, ponendosi una semplice domanda, cambiò il mondo: Alan Turing.La domanda era: le macchine possono pensare?
Venne formulata in un articolo pubblicato sulla rivista “Mind” nell’ottobre del 1950 dallo scienziato che con i suoi computer aveva aiutato a decriptare la macchina Enigma dei tedeschi (grazie a lui il centro di Bletchley Park riusciva a decifrare 84 mila codici nazisti al mese). Si fa giustamente risalire a quel quesito e a quell’impostazione di pensiero (quasi un ecosistema di pensiero) la genesi stessa dell’intelligenza artificiale anche se il termine comparirà per la prima volta sei anni dopo ad opera di John McCarthy, un professore di Stanford. In realtà a riprendere il pensiero di Turing ritroviamo tutto e di più: prima del 1950 aveva pubblicato un paper scientifico sulla “intelligent machinery”. Aveva già dunque connesso il concetto stesso di intelligenza al mondo di quelli che oggi chiamiamo computer. Anche se l’idea stessa di una tecnologia “antropomorfa” che possa svilupparsi autonomamente secondo i processi di evoluzionismo darwiniani era già stata messa per iscritto nell’Ottocento da Samuel Butler, un contemporaneo dello stesso naturalista.
Butler pubblicò sotto pseudonimo “Darwin among the machines”, Darwin tra le macchine. Anche se si trattava di una storia diversa: una lettura critica e in chiave luddista (coerente con i tempi) delle macchine presenti nelle fabbriche. Diverso fu l’approccio di Turing che fu uno scienziato e anticipò (meglio sarebbe dire diede forma) al mondo in cui stiamo vivendo.
Un esempio concreto di questa capacità di plasmare il suo futuro (il nostro presente) emerge da una affermazione: “Invece di provare a produrre un programma che simuli il cervello di un adulto, perché non cercare di produrne uno che simuli quello di un bambino? Se questo fosse soggetto a un appropriato corso di educazione allora potremmo ottenere il cervello di un adulto”.
Oggi lo chiamano machine learning. Altro esempio: molti ricorderanno che negli anni Novanta il primo attacco al primato dell’intelligenza umana venne portato avanti con le famose partite di scacchi tra l’allora campione del mondo Garry Kasparov e il computer Ibm Deep Blu. Ebbene fu sempre di Turing (che era uno scacchista appassionato) l’idea di usare proprio lo scacco matto per mettere a confronto le doti di un sapiens con quelle di una macchina. Creò anche il primo programma della storia per simulare il gioco degli scacchi: per la cronaca si chiamava TurboChamp.
La storia di Turing è ormai nota e gli anniversari non aggiungono molto in questi casi, salvo poter diventare l’occasione per porsi altre domande. Il destino dell’articolo di Turing, come quello di molti libri, è di essere citato spesso, ma di non essere stato letto altrettanto spesso. E forse è per questo che l’eredità di quella domanda sembra oggi essere un grande senso confuso di ansia. Vale dunque la pena di prendersi mezzora e di andare a ri-leggerlo. Scriveva Turing che non trovava molto sensato sviluppare una «pelle artificiale» per nascondere le fattezze del computer e confondere gli esseri umani. Nel 1982 Ridley Scott immagina proprio questo in «Blade Runner», riprendendo il tema dello scrittore Philip Dick: i replicanti sono perfettamente mimetizzati tra le persone e per scovarli è necessario il test Voight-Kampff. Domande, per confondere le menti artificiali sviluppate dalla Tyrell corporation. Proprio queste domande necessarie per smascherare i replicanti sono la grande intuizione scientifica di Turing, che già a poche righe dall’inizio dell’articolo conveniva che «le macchine possono pensare?» è una domanda che non ci si può porre in realtà , perché dovremmo prima rendere univoci i termini «macchina» e «pensiero». Adottando il pensiero dell’epistemologo Thomas Kuhn sembra ritornare una delle sue grandi intuizioni: le società determinano, di volta in volta, le domande che ci si possono porre, dalla messa in discussione della centralità della Terra nell’universo all’unicità del pensiero umano.
Proprio per eludere questo vicolo cieco lo scienziato descriveva quello che oggi chiamiamo test di Turing e che nessun computer o AI ha superato (qualcuno sostiene che lo abbia fatto ChatGPT ma ci muoviamo nel campo dell’opinabilità): si tratta di mettere un computer in una stanza, un uomo in un’altra, neutralizzare qualunque elemento indiziario (voce, calligrafia, etc) e cercare poi, attraverso dei quesiti, di far indovinare a un terzo soggetto all’oscuro di tutto con chi stia parlando. Particolare importante: la macchina può «imbrogliare». L’idea è che se l’AI è abbastanza intelligente possa “travestirsi” da essere umano, non facendosi individuare. Dunque la vera domanda da oggi in poi dovrà essere: hai letto Turing?
In realtà Turing stesso mostrò un atteggiamento altalenante sulla questione. In una sorta di processo alle sue idee che venne fatto alla BBC Radio si mostrò più radicale nel difendere l’idea che il pensiero artificiale potesse prendere forma. Lasciò anche un curioso sillogismo – testamento legato in realtà alla sua paura di essere giudicato per la propria omosessualità (che al tempo in Gran Bretagna era un reato e che lo portò ad accettare la castrazione chimica al posto della prigione. Fu questo che lo indusse probabilmente a cedere a quello che a tutti gli effetti appare un suicidio: la mela auto-avvelenata di Biancaneve. Si consideri che fu solo Gordon Brown da Primo ministro a scusarsi per la Gran Bretagna nel 2009. Non proprio come per Galileo e Giordano Bruno ma certo: tutto dipende dai parametri di riferimento).
Comunque, dicevamo, il sillogismo firmato amaramente da Turing stesso: “Turing mente. Turing crede che le macchine possano pensare. Le macchine non possono pensare”. Era questa la sua paura.
Per il resto: come avremmo giudicato noi dal punto di vista intellettuale Turing? Era disgrafico, disordinato anche nel vestire (almeno per la società e l’educazione vittoriana dell’epoca). Superficiale. Facile alla noia. Amante montessorianamente delle macchine (le costruiva di proprio pugno come fece con la sua macchina automatica cioè capace di raccogliere, leggere e scrivere i dati in maniera autonoma, oggi detta macchina di Turing).
Insomma in una parola era un genio.
Piccola nota biografica: passò un anno in Italia ma era troppo piccolo per ricordarsene avendo un solo anno di vita.
Prima di morire lavorò alla teoria delle decisioni e dimostrò (dal punto di vista matematico) che non si può costruire un algoritmo che possa garantire sempre e in ogni situazione di poter decidere tra un sì e un no. Una sorta di lontano cugino del principio di indeterminatezza legato ai numeri del Fibonacci e alla distribuzione casuale delle macchie sulla pelliccia del leopardo. .
Oggi mentre ci domandiamo se le macchine possono pensare ce lo dovremmo ricordare più che mai. La conoscenza non è un bivio dove alla fine troviamo una domanda con due soluzioni chiuse che si contrappongono. Piuttosto è la sottile arte di viaggiare in equilibrio sulle sfumature più sottili per strappare qualche dubbio illuminante alla vita.
D’altra parte per capire fino in fondo Turing e la sua eredità nel nostro inconscio vale recuperare una galoppante visione delle cattive notizie per l’umanità. Quali sono è presto raccontato: tutto ebbe inizio con Niccolò Copernico. L’uomo si stava crogiolando al centro dell’Universo grazie alle verità aristotelico-tomiste quando a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento arrivò la prima «cattiva notizia»: al centro, mi dispiace, c’è il Sole (scoprimmo dopo che non c’era nemmeno la nostra stella). L’uomo allora si rifugiò nella Natura trovando in essa il nuovo epicentro esistenziale. La soddisfazione durò in effetti oltre tre secoli, fino a quando un laureato in Teologia all’università di Cambridge — un uomo il cui padre aveva sentenziato su di lui: non concluderà mai nulla di buono nella vita — non veicolò la seconda cattiva notizia. Era Charles Darwin. A lui il merito di averci ricordato che non siamo nemmeno al centro della Natura ma anzi ne siamo forse un’eccezione, una singolarità, un sassolino caduto diversamente nella lunga strada dell’evoluzione. Cosa fece l’uomo dopo aver perso la centralità dell’Universo e della Natura? L’homo sapiens diventò «homo psychologicus» e si rifugiò nella mente. A portare la terza cattiva notizia fu Sigmund Freud che ci ricordò come anche questa centralità fosse illusoria: siamo il risultato dell’inconscio e dei problemi insoluti con le nostre madri. A disegnare questo geniale percorso fu lo stesso Freud il cui fine, nemmeno tanto nascosto, era quello di indicare agli altri il proprio contributo fondamentale nella comprensione dell’essere umano. Di fatto ha inventato il marketing e il personal branding. Non meno geniale è stato Luciano Floridi, filosofo che insegna all’Università di Yale, a cui si deve la quarta cattiva notizia. Persa la centralità anche della mente l’uomo si ritrasse nella tecnologia, credendo di poterla domare. Fino a quando Alan Turing non decise di porsi la fatidica domanda: le macchine possono pensare? L’uomo a questo punto — ed è questo il mio piccolo contributo perché le cattive notizie non viaggiano mai sole — vagò qualche decennio nell’incertezza fino a quando non arrivò Internet. Wow. Fu qui che l’essere umano scoprì di potersi ricostruire una centralità nell’infosfera, un nuovo equilibrio aristotelico. Fino a quando non arrivarono Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e Larry Page: al centro non ci siamo noi, ma un algoritmo che decide cosa mangiamo, con chi usciamo, cosa leggere e anche chi votare. E’ per questo che siamo tutti felici su Facebook, tutti arrabbiati su Twitter, tutti in vacanza su Instagram ma tutti in cerca di lavoro su Linkedin…
Sembra riproporsi il dilemma di Sofocle: Dove fuggire? Dove, essendo fuggiti, restare?
Peraltro il percorso ontologico delle cattive notizie sembra sposarsi con il viaggio del romanzo. Il Don Chisciotte aveva un mondo senza limiti davanti a sé, una terra perlopiù incognita piena di sorprese. Lo ricorda Milan Kundera nel classico pamphlet “L’arte del romanzo” dove l’autore fa risalire a questo libro di Cervantes la nascita del romanzo europeo, sconfinato, almeno nei suoi esordi. Eppure davanti al Don Chisciotte si staglia già l’ombra della tecnologia a limitare questa possibilità di infinito: è quella dei mulini a vento che rappresentano la meccanica che riesce a sopraffare l’uomo e a bloccare le sue ambizioni, spesso illusorie.
La storia del romanzo diventa così storia della tecnologia. Anche nella battaglia di Troia e nella lunga attesa degli assedianti interviene la tecnologia a rompere gli equilibri umani, quella del cavallo di legno immaginato da Ulisse e vissuto, non a caso, come una stratagemma immorale. Se si segue la linea tratteggiata da Kundera nello sviluppo del romanzo europeo si approda a una sempre maggiore limitazione di spazi: dall’infantile ma libero viaggiare del Don Chisciotte si entra man mano in scatole sempre più ristrette: «L’uomo è preso in un vero e proprio turbine di riduzione, nel quale il mondo della vita di cui parlava Husserl fatalmente si offusca e l’essere cade nell’oblio». Kundera le chiama le «termiti» della riduzione, potenziate, secondo lui, dal modernismo e dalla visione tecno-scientifica. Si passa così dagli spazi sconfinati ai muri di Madame Bovary, ai dolori del giovane Werther, alla burocrazia kafkiana che limita e governa le nostre vite. Anche nel Visconte dimezzato di Calvino ritroviamo la tecnica e la scienza (il carpentiere e il medico) come ingredienti dell’incompletezza.
Ed è qui che si chiude il cerchio ripartendo da una domanda: resisterà l’uomo alla tentazione di far pensare le macchine?
APPROFONDIMENTI
One More Thing: dal mondo della scienza e dell’innovazione tecnologica le notizie che ci cambiano la vita (più di quanto crediamo)
Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, riportiamo sul nostro blog gli articoli della Newsletter “One More Thing” (https://www.corriere.it/newsletter/?theme=59#).
Perché One More Thing, ancora un’altra cosa? Perché nell’era dell’infodemia e della bulimia informativa di cui siamo tutti vittime, esistono ogni tanto notizie che non si contano ma si pesano. Ecco allora perché “One more thing” come il famoso stratagemma di Steve Jobs per presentare, all’ultimo, l’innovazione migliore. Ma anche come quell’ancora un’altra cosa con cui il tenente Colombo tesseva la sua ragnatela intorno al colpevole, filo dopo filo, con il metodo scientifico di Galileo Galilei.