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Perché il premio Nobel sull’Rna messaggero è anche un po’ italiano – One More Thing

DNA, biologia, scienza-Licenza: CC0 Public Domain-Publicdomainpictures.net

Di Massimo Sideri, inviato ed editorialista del “Corriere” sui temi di scienza, innovazione e tecnologia (vedi riferimenti a fondo pagina)

Il premio Nobel per la Medicina 2023 è stato assegnato lunedì all’ungherese Katalin Karikò e allo statunitense Drew Weissmanper per “le loro scoperte riguardanti le modifiche delle basi nucleosidiche che hanno consentito lo sviluppo di efficaci vaccini a mRna contro il Covid-19”.

 L’Rna è il figlio di un dio minore rispetto al Dna: a scuola tutti apprendono al volo il concetto dell’acido desossiribonucleico, forse anche per la potenza dell’immagine della doppia elica. 

L’Rna è la doppia elica sfilata: strappatene uno dei due filamenti ed ecco l’Rna che però può avere quattro funzioni. Una di queste è appunto indicata con quella piccola m che sta per messaggero: l’mRna è un po’ il nostro Mercurio (Hermes).  E’ il Dna con le ali ai piedi. Cosa porta il nostro messaggero? Le informazioni genetiche. 

La breve premessa scolastica è importante per affermare che il Nobel per l’Rna messaggero di fatto sancisce che siamo nell’era del biotech.
Basterebbe rileggere le motivazioni del Premio che fanno espressamente riferimento ai vaccini per capire che di fatto hanno rappresentato il più grande test di biotecnologie al mondo.
Certo, una terapia genica è ben più complessa (richiede l’analisi del Dna – passata per inciso dal miliardo costato a Craig Venter per sequenziare nel 2000 parzialmente il genoma umano ai circa 300/400 dollari attuali -, il prelievo delle cellule bersaglio, cosiddetta terapia ex vivo, il loro trattamento e la reinfusione nel corpo).
Ma possiamo lo stesso dire che quella dei vaccini a mRna è stata una piccola grande prova generale delle potenzialità del biotech.

Le biotecnologie ci hanno salvato letteralmente la vita.
Ma non vanno dimenticate due cose:

1) ci sono stati anni di oscurantismo dove chi si occupava di scienze del Dna era trattato alla stregua di un alchimista.

2) Anche se siamo sempre i primi a dimenticarci del nostro passato, non solo quello remoto, ma anche quello prossimo, quella rivoluzione è nata in parte qui in Italia: nel 1992 venne concluso a Milano con il professor Claudio Bordignon il primo esperimento al mondo (fonte Nature) sulle cellule staminali del sangue. E venne concluso grazie a don Verzé che anche se discusso per tanti altri motivi legati alla gestione finanziaria del suo impero portò avanti la sua guerra per strappare agli Usa gli scienziati come Bordignon (e come Luigi Naldini) che lì si erano rifugiati, come sempre.

Ora possiamo dire che ci sono state 4 rivoluzioni nella storia della medicina: l’igiene che costò l’equilibrio mentale al medico ungherese Ignàc Semmelweiss, gli anestetici (merito dei dentisti), gli antibiotici e le biotecnologie. Siamo nel secolo della genetica e un po’ è merito nostro (le quattro rivoluzioni le racconta nel podcast Geni Invisibili lo stesso Bordignon. Puoi sentire l’episodio qui).

Ecco la storia: eravamo nel 1992, due anni prima che Jerry Yang fondasse Yahoo e che gli algoritmi sapiens iniziassero a fare concorrenza agli uomini, quando Bordignon conquistava le pagine del volume 356 di Nature grazie al primato mondiale nell’utilizzo delle cellule staminali del sangue. La strategia italiana, come ricordava la stessa rivista scientifica, era in «concorrenza» con quella americana di Michael Blaese e French Anderson. Ma è un fatto che gli italiani furono i primi a trattare il paziente con le cellule staminali introducendo in più quella che sta diventando la chiave delle cure geniche, la manipolazione delle cellule con un retrovirus.

«Italians first to use stem cells» titolava la rivista scientifica. Fu, come ricordò il professore Bordignon allora, non solo una vittoria scientifica, ma anche etica. Siamo stati pionieri e resilienti.

Per inciso, almeno per questa apertura verso la scienza di frontiera, la figura di Don Verzé dovrà forse essere recuperata (nella «basilica» del San Raffaele l’altare è ancora sovrastato da un’enorme, pendente, a lungo quasi sacrilega vista la posizione ufficiale della Chiesa, elica di Dna).
L’Italia di oggi non ama la scienza, nonostante il grande lavoro di divulgazione che Piero Angela ha fatto con Quark su almeno un paio di generazioni di telespettatori, ma la scienza, nonostante tutto, sembra continuare ad amare l’Italia.

Ed è un altro fatto che 24 anni dopo, nel 2016, la Commissione europea ha autorizzato il primo farmaco per la terapia genica ex vivo (in pratica la modifica delle cellule avviene fuori dal corpo umano) derivante proprio da quella esperienza.

In mezzo a queste due date sono accadute tante cose: il mondo ha abbracciato la Religione della Rete, una tecnologia dominante che ha rilanciato l’industria della Silicon Valley pur essendo stata in parte sviluppata negli anni precedenti in Europa. Gli Stati Uniti hanno in parte messo le mani anche sulla pietra miliare della mappatura del genoma umano:  Venter nel 2000 fu il primo ad annunciare di avere completato con la sua società privata, la Celera Genomics, la sequenza del Dna umano, anche se in realtà l’obiettivo fu ottenuto in parallelo dal consorzio pubblico internazionale Progetto Genoma Umano.

Ma, a parte il clamore di questo risultato, la genetica per oltre un decennio è stata oscurata dalle mirabili possibilità di internet e dalla morte nel ’99 del diciottenne Jesse Gelsinger. Fu un duro colpo per le terapie geniche nel mondo.

Nel film The social Network su Mark Zuckerberg, si respira quell’aria di pionierismo del web che da noi non c’è mai stata. Non è una questione di intelletto: nel film si capisce bene come solo un ragazzo che frequentava una delle università della cosiddetta Ivy League potesse pensare alla rete sociale che ha nome Facebook. È una questione anche culturale, di mode, di anticipazioni di trend. Possiamo essere i più bravi a ideare stili di vita e linee eleganti nell’abbigliamento. Anzi: lo siamo. In passato abbiamo giocato con la Olivetti anche la serie A della corsa ai computer come abbiamo visto. Ma poi è arrivato internet e su algoritmi, advertising digitale e social network viviamo di rimbalzo. Pace.

Il problema è proprio questo: se trovassimo il coraggio di applicare quella lezione di Steve Jobs sui puntini che vanno collegati a posteriori, dovremmo concludere che il nostro continuare a piangerci addosso per non essere capaci di fondare la nuova Google è insensato perché ci distoglie da quello che sapremmo fare. Non è solo oscurantismo scientifico alimentato dalla tv popolare. Siamo vittime della retorica dell’anti-italiano: ci consideriamo tutti dei “furboni” e, dunque, siamo incapaci di credere di potere inventare qualcosa di nuovo.

Siamo i primi nemici di noi stessi.

E invece, i fatti: è proprio al San Raffaele, grazie alla joint venture con la Fondazione Telethon e alla generosità degli italiani, che quel primo importante risultato del ‘92 è stato cresciuto e cullato fino a diventare la terapia genica che, sebbene sotto la responsabilità del gruppo inglese Gsk che nel 2010 ne ha preso in licenza i diritti, è stato prodotto, lo Strimvelis, per la cura della rara patologia Ada-Scid, quella dei cosiddetti bambini-bolla (cioè che nascono quasi senza difese immunitarie).

Un altro genetista italiano, Luigi Naldini, è stato il primo a disarmare il virus dell’Aids, l’Hiv, trasformandolo in una grande promessa per le cure geniche del cancro. Quanti italiani lo sanno? Troppo pochi. Ancora: abbiamo un premio Nobel per la medicina 2007 a un genetista: qualcuno ricorda Mario Capecchi?

Certo, siamo deboli nel trasformare la scienza in imprese, non abbiamo nelle nostre università degli uffici adeguati di technology transfer. Non sappiamo raccogliere capitali adeguati per queste sfide. Mentre negli Usa il Biotech è già considerata la prossima industria pronta ad esplodere. Vale miliardi al Nasdaq.

Ma potremmo giocare la partita nella Champions delle biotecnologie, partendo dal riconoscere i nostri primati e il nostro livello scientifico, altissimo.
Per valorizzarlo

 


APPROFONDIMENTI

One More Thing: dal mondo della scienza e dell’innovazione tecnologica le notizie che ci cambiano la vita (più di quanto crediamo)

Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, riportiamo sul nostro blog gli articoli della Newsletter “One More Thing” (https://www.corriere.it/newsletter/?theme=59#).
Perché One More Thing, ancora un’altra cosa? Perché nell’era dell’infodemia e della bulimia informativa di cui siamo tutti vittime, esistono ogni tanto notizie che non si contano ma si pesano. Ecco allora perché “One  more thing” come il famoso stratagemma di Steve Jobs per presentare, all’ultimo, l’innovazione migliore. Ma anche come quell’ancora un’altra cosa con cui il tenente Colombo tesseva la sua ragnatela intorno al colpevole, filo dopo filo, con il metodo scientifico di Galileo Galilei.