Di Massimo Sideri, inviato ed editorialista del “Corriere” sui temi di scienza, innovazione e tecnologia (vedi riferimenti a fondo pagina)
Nasce prima l’intuizione o la tecnologia che la rende possibile? Gli esseri inanimati a cui il «Doctor Universalis» pensava nel Duecento sono arrivati solo nel Novecento.
“I ROBOT sono il risultato di un viaggio in tram. Un giorno, per andare al centro di Praga, ho dovuto prendere un tram di periferia che era fastidiosamente affollato. L’idea che le condizioni di vita moderne abbiano reso le persone indifferenti alle più semplici comodità della vita, mi ha atterrito. Erano ammassati lì dentro e persino sugli scalini del tram non come pecore, ma come macchine. È stato in quel momento che ho iniziato a riflettere sugli uomini come se fossero macchine, invece che individui, e per tutto il viaggio ho cercato un termine in grado di definire un uomo capace di lavorare, ma non di pensare. Questa è l’idea espressa dalla parola ceca robot”.
Descriveva così il drammaturgo K. Čapek, sull'”Evening Standard” del 2 giugno 1924, la nascita di un lemma destinato a cambiare la storia della tecnologia: robot, dal ceco robota, che significa schavitù, servitù.
Una intuizione quella di Čapek che, al di là della piega presa poi dalla storia con la nascita degli androidi, rimane una metafora insuperata della modernità: quante volte ci siamo sentiti come macchine, prigionieri dei ritmi della società che noi stessi abbiamo costruito intorno a noi? Potremmo dire: Noi, Robot.
Ma come in un classico gioco di specchi il sogno letterario di un uomo meccanico gli ha poi dato effettivamente vita. Una storia che inizia da molto più lontano, in verità.
Per un diffuso malinteso siamo abituati a pensare alla tecnologia come a un’invenzione del Novecento. Il Secolo Breve è stato senza dubbio anche il Secolo dell’high-tech. Dei razzi, della conquista della Luna, degli stessi robot — prima nei romanzi e poi nelle fabbriche — dei computer (Olivetti) e di internet. Eppure le idee “quasi platoniche” di queste stesse tecnologie accompagnavano l’umanità già da tempo.
Il più antico calcolatore meccanico conosciuto è la macchina di Anticitera del XXI secolo avanti Cristo: era in grado di calcolare la posizione dei corpi celesti.
L’abaco risale al 150 avanti Cristo. Mentre il primo “software” è del 1842 quando la contessa di Lovelace, Ada Byron (figlia del poeta Lord Byron) scrisse i primi programmi per la macchina analitica di Charles Babbage. Anche nei robot troviamo la stessa curvatura spaziotemporale: se è vero che il neologismo Robot è comparso solo nel 1920 nell’esilarante commedia teatrale filocomunista Rur di Čapek, il termine androide risalirebbe al Milleduecento. Non è un refuso.
Spesso la visione ha anticipato la tecnologia, di molto.
Questo è avvenuto anche nella prima parte del Novecento: le teorie sulla relatività di Albert Einstein hanno dovuto attendere mezzo secolo per essere dimostrate. Il grande scienziato arrivò alla sua formulazione già nel 1915. Ma solo nel 1976-77 Robert Reasenberg e Irwin Shapiro di Harvard dimostrarono con un esperimento con Marte e le sonde Viking 1 e Viking 2 che lo spazio doveva flettersi vicino al Sole (il diametro era più lungo di quanto avrebbe dovuto essere calcolando la circonferenza e utilizzando la famigerata costante Pi greco).
Prima di allora mancava sostanzialmente la capacità tecnica di verificare le intuizioni fisiche su come si comporta la materia e la gravità alla velocità della luce (dove la fisica di Newton falliva). Forse è questo l’aspetto più strabiliante che sta caratterizzando la modernità: un’accelerazione della tecnica rispetto alle idee.
È questo che ci spiazza, che ci lascia senza il tempo neuronale, genetico e psicologico di digerire il cambiamento.
Per l’androide, appunto, abbiamo avuto otto secoli. E non sembrano essere bastati.
La tradizione li fa risalire ad Alberto Magno di Bollstäd (1206-1280), vescovo, filosofo, teologo e anche scienziato in odore di alchimia (per la Chiesa cattolica è il Santo protettore della Scienza come anche un altro personaggio di “frontiera” come il frate volante San Giuseppe da Copertino, lo stesso che ha dato il nome a Cupertino nella Silicon Valley, è il protettore degli studenti agli esami). Alberto Magno, detto anche il Doctor Universalis, usò il termine androide (il significato è “simile all’uomo”, dall’unione di due parole del greco antico) per definire esseri inanimati cui l’alchimia poteva infondere la vita.
Per inciso androide è una definizione valida solo per i robot con fattezze maschili. Quelli con fattezze femminili andrebbero definiti ginoidi.
Nell’androide di Alberto Magno si scorgono facilmente miti, leggende e suggestioni letterarie che ci hanno accompagnato per secoli: il Golem, l’uomo di sabbia, il mostro creato dal Dottor Frankenstein. Il sogno proibito della scienza di sostituirsi al Dio creatore che torna quando la natura ci riporta alle nostre angosce ancestrali e più profonde (Mary Shelley scrisse il suo romanzo in quello che passò alla storia come l’anno senza estate, il 1816, a causa dell’esplosione del vulcano Tambora nell’attuale Indonesia. Lo stesso anno in cui nacque per lo stesso motivo la bicicletta come racconto in questo episodio del podcast con Ernesto Colnago). Ricordiamo che anche il nostro Pinocchio segue lo stesso schema, con l’amore di un padre a sostituire l’alchimia di Magno.
Una spiegazione, dietro queste incertezze interiori di cui ancora oggi la paura dei robot è una testimonianza, esiste. Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, lo chiamava il perturbante, uno stato d’animo che suscita un interiore turbamento legato al fatto di sentirsi attratti da qualcosa che sentiamo paradossalmente a noi vicino. In lingua tedesca il termine è Das Unheimliche , un aggettivo sostantivato utilizzato da Freud come termine concettuale per esprimere una paura molto specifica.
Uno spaesamento legato a una familiarità repulsiva. Nel saggio del 1919 intitolato proprio “Il perturbante”, Freud analizzava L’uomo della sabbia di Hoffmann (1815) individuando nell’orco l’origine di questo timore inconscio. Sempre nel libro di Hoffmann compare anche Olympia, una bambola capace di animarsi. Ecco il nostro robot ante litteram.
È lo stesso fascino prodotto dal mostro di Frankenstein: vediamo un essere simile a noi, tentiamo di riportare la sua immagine a qualcosa di familiare. Eppure ne abbiamo orrore. Con i robot, umanoidi o quadrupedi, accade la stessa cosa. È come se non superassero il Test di Turing del nostro subconscio.
Secondo alcune tracce e frammenti di cronache storiche il teologo di cultura tedesca non solo anticipò l’idea di umanoide ma arrivò anche a creare una testa capace di interagire con l’uomo, molto prima del cavaliere meccanico descritto da Leonardo da Vinci nei suoi taccuini.
Sullo sfondo rimane questa domanda: nasce prima la suggestione, l’intuizione e l’idea o prima la scoperta scientifica e la tecnica? La risposta non c’è.
Ma come ricorda Bertrand Russell nella sua Storia della filosofia occidentale non furono le risposte di Aristotele e Platone — spesso sbagliate — a renderli immortali. Ma il fatto di essersi posti le domande giuste. Le domande giuste ci salveranno anche da questa paura.
APPROFONDIMENTI
One More Thing: dal mondo della scienza e dell’innovazione tecnologica le notizie che ci cambiano la vita (più di quanto crediamo)
Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, riportiamo sul nostro blog gli articoli della Newsletter “One More Thing” (https://www.corriere.it/newsletter/?theme=59#)
Perché One More Thing, ancora un’altra cosa? Perché nell’era dell’infodemia e della bulimia informativa di cui siamo tutti vittime, esistono ogni tanto notizie che non si contano ma si pesano. Ecco allora perché “One more thing” come il famoso stratagemma di Steve Jobs per presentare, all’ultimo, l’innovazione migliore. Ma anche come quell’ancora un’altra cosa con cui il tenente Colombo tesseva la sua ragnatela intorno al colpevole, filo dopo filo, con il metodo scientifico di Galileo Galilei.